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  • Non c'è una parola per dire la morte di un figlio

    23/03/2016

     Luigi Cancrini da L’Unità del 22/3/2016

    Muor giovane colui che al cielo è caro, cantava in una poesia dolce e profonda Giacomo Leopardi. Il verso che leggevamo a scuola, senza capirne a fondo il senso, torna alla mente adesso di fronte ai volti meravigliosi delle ragazze travolte in Catalogna da una tragedia che è insieme banale e inspiegabile. Che potrebbe essere accaduta, non possiamo non sentirlo tutti, a noi o ai nostri figli. Che fa pensare al Fato inteso come un destino maligno più che ad una concatenazione casuale di eventi piccoli o ad un mondo regolato dalle volontà di cui ci parla la religione.

    Mi sono detto tante volte, e me lo sono ripetuto ancora oggi, pensando alle loro famiglie, che non c’è una parola per dire la morte di un figlio. Vedovo è chi perde il marito o la moglie, orfano è il figlio che perde il padre o la madre, per la perdita di un figlio o di una figlia il vocabolario degli uomini non ha un termine o un nome perché la perdita di un figlio è un evento che sfugge alla logica, che sta fuori dalla possibilità di essere immaginato. E che tuttavia arriva, come stavolta, perché anche i figli muoiono ai loro genitori. Aprendo ferite non rimarginabili. Cambiando per sempre la loro vita.

    Accettare il dolore, elaborando il lutto che lo provoca, non vuol dire mai semplicemente andare avanti, infatti, perché Freud ha ragione quando dice che quello che si perde nel momento del lutto non è l’altro ma la parte di noi che in quell’altro che se ne è andato avevamo messo. E perché quello che si perde col figlio o con la figlia che non c’è più è l’insieme dei pensieri e dei progetti e dei sogni che con lui e in lui avevamo vissuto. Altro non siamo in quanto esseri umani che l’insieme complesso e articolato delle relazioni che abbiamo costruito con gli altri, e il ruolo del figlio o della figlia in questo insieme è il più importante, è il più significativo perché il figlio, qualsiasi figlio è, per chi ha avuto la fortuna di averlo e di viverlo, un blocco così enorme di passato e di futuro da rendere impossibile che la persona che lo perde resti simile a se stessa nel tempo in cui lui, il figlio o la figlia, non c’è più.

    L’unica reazione possibile, in queste condizioni, è a mio avviso quella di chi sapendo la inguaribilità della sua ferita e del suo dolore, dedica al figlio o alla figlia le azioni e le scelte del tempo che comunque viene. La risorsa grande dell’essere umano è quella del ricordo nella misura in cui la persona che non c’è più diventa l’ispirazione dei tuoi pensieri e delle tue azioni. “Muor giovane colui che al cielo è caro” diventa, da questo punto di vista, un modo di pensare al figlio o alla figlia che non c’è più in termini di quello che la sua gioventù, la sua voglia di vivere, la sua innocenza di persona che stava appena aprendo gli occhi alla vita avrebbero potuto cercare o realizzare. Incontaminato e puro, questo diceva forse il verso che Leopardi aveva tratto da un testo dell’antica Grecia, il progetto di vita di quel figlio o di quella figlia può essere tenuto in vita dalla forza e dall’amore di chi lo o la ricorda. Perché caro al cielo vuol dire, alla fine, caro a noi che dentro di noi ne custodiamo il ricordo. In tutta la sua bellezza e dolcezza.

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    • 24/03/2016 | 12:00

      Patrizia ha scritto:

      Complimenti! Un testo profondo e commovente...